Don Tonino Bello, profeta di pace

Un pomeriggio d’estate, in vacanza, tornando da una giornata trascorsa in una delle belle spiagge salentine, abbiamo visto le indicazioni per Alessano. Non l’avevamo programmato per quel giorno, ma presi dall’entusiasmo abbiamo seguito i cartelli fino al cimitero che custodisce la tomba di don Tonino Bello.

È un luogo di grande spiritualità, di silenzio e preghiera. Ma anche un luogo di memoria, dove ricordare quello che don Tonino è stato, attraverso immagini e parole scolpite – “In piedi costruttori di pace!” si legge su di un muretto. E poi un luogo dove si respira senso di comunione, grazie ai tanti pensieri e oggetti di devozione appesi al grande ulivo dai pellegrini di passaggio.

Un vescovo fatto Vangelo

A trent’anni dalla sua morte, il 20 aprile 1993, don Tonino Bello continua a parlarci attraverso i suoi scritti, vere e proprie lezioni, ma anche attraverso immagini evocative e preghiere. La sua vita e la sua opera di pastore sono state un’esegesi vivente del Vangelo, nel segno del servizio e dell’attenzione privilegiata ai poveri.

Un vescovo fatto Vangelo” l’ha definito monsignor Agostino Superbo, postulatore della causa di beatificazione avviata nel 2007. Nato ad Alessano nel 1935, a 22 anni Antonio Bello diventa sacerdote, successivamente si laurea e consegue il dottorato in Teologia. Terziario francescano, a 47 anni viene nominato vescovo di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi, Ruvo e nel 1985 diventa presidente nazionale di Pax Christi. Muore a 58 anni per un tumore allo stomaco. Nel 2021 papa Francesco lo nomina venerabile.

20 aprile 2018, papa Francesco prega sulla tomba di don Tonino Bello

La Chiesa del grembiule

Don Tonino Bello utilizzava spesso delle immagini per parlare anche di temi importanti. Una di queste è sicuramente la “Chiesa del grembiule”, espressione molto amata anche da Papa Francesco. “Forse a qualcuno può sembrare un’espressione irriverente – spiega don Tonino – e l’accostamento della stola con il grembiule può suggerire il sospetto di un piccolo sacrilegio. Sì, perché, di solito, la stola richiama l’armadio della sacrestia, dove, con tutti gli altri paramenti sacri, profumata d’incenso, fa bella mostra di sé con la sua seta e i suoi colori, con i suoi simboli e i suoi ricami. […] Il grembiule, invece, ben che vada, se non proprio gli accessori di un lavatoio, richiama la credenza della cucina, dove, intriso di intingoli e chiazzato di macchie, è sempre a portata di mano della buona massaia. […] Eppure è l’unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo. Il quale Vangelo, per la Messa solenne celebrata da Gesù nella notte del Giovedì Santo non parla né di casule né di amitti, né di stole né di piviali. Parla solo di questo panno rozzo che il Maestro si cinse ai fianchi con un gesto squisitamente sacerdotale”. E aggiunge “La cosa più importante non è introdurre il grembiule nell’armadio dei paramenti, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale. Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile”.

È una Chiesa che si piega davanti al mondo, in ginocchio. Una Chiesa povera per i poveri, libera e al servizio di tutti, che cammina con i più bisognosi condividendo problemi e speranze. D’altra parte “i poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta – continua don Tonino – e il roveto ardente e inconsumabile da cui egli ci parla”. La Chiesa povera è l’unico modo per essere vicini a ogni uomo, per essere presi sul serio e divenire credibili.

In piedi, costruttori di pace!

Un grande insegnamento del vescovo di Molfetta è stato il suo essere testimone della nonviolenza e della pace. È il 30 aprile 1989 quando all’Arena di Verona risuona forte e appassionato l’invito di don Tonino: “In piedi, costruttori di pace!”. In quell’occasione afferma: “Siamo giunti alla pienezza dei tempi, ed è balenata alle nostre coscienze la convinzione che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato. Siamo passati, per così dire, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario della pace. Tutto questo crea scandalo. Quando, sulla scorta della Parola di Dio, si è scoperta la stretta parentela della pace con la giustizia, si sono scatenate le censure dei potenti”.

Il problema della pace, per don Tonino, non è un tema accessorio, ma fondamentale. “La violazione dei diritti umani – afferma – il problema della fame che investe popoli interi, la corsa alle armi e il commercio clandestino di esse, la logica di guerra sottesa a molte cosiddette ‘scelte di civiltà’, gli scudi stellari, certe visioni economiche… sono forme di peccato. Non possono perciò considerarsi temi estranei alla predicazione del Vangelo”. 

La Marcia dei Cinquecento a Sarajevo

Il rifiuto della guerra viene ribadito più forte che mai nel 1991, quando scoppia la Guerra del Golfo. L’anno successivo don Tonino partecipa alla Marcia dei Cinquecento a Sarajevo con, tra gli altri, don Albino Bizzotto, ideatore dell’iniziativa, il gruppo Beati i Costruttori di Pace di Padova e il suo amico monsignor Luigi Bettazzi. Il tumore lo aveva già gravemente colpito.

Scrive La Civiltà Cattolica: “Tra tante difficoltà, trattative, rimandi e dinieghi, nonostante i blocchi dell’esercito e dei paramilitari, sotto la mira dei cecchini i Cinquecento riuscirono nell’impossibile: raggiungere Sarajevo sotto assedio, di notte, proprio in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani. Fu un segno di speranza per la popolazione martoriata, che viveva nell’incubo della fame e della morte. Don Tonino in quell’occasione ebbe a proclamare, durante un’assemblea, il valore della nonviolenza e della pace fra le diverse etnie: «Siamo qui, allineati sulla grande idea della nonviolenza attiva […]. Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati. Abbiamo sperimentato che ci sono alternative alle logiche della violenza…». Fu un viaggio simbolico, ma aprì la strada a iniziative di coope­razione e aiuti alle popolazioni balcaniche, reinventando la solidarietà umana nella ricerca della pace”.

Era l’11 dicembre e don Tonino immaginò che i Cinquecento fossero i magi in cerca del Bambino Gesù. “Ecco, l’abbiamo trovato nelle persone che abbiamo abbracciato lungo la strada. Nei fanciulli che ci venivano incontro per darci la mano e un sorriso di speranza. Nei vecchi commossi per la nostra audacia. Nel giovane soldato piangente alla nostra partenza. Nei capi religiosi della città e nelle autorità civili, che ci hanno implorato di interessare il mondo, indifferente, come la città di Betlemme, alle sofferenze dei poveri”.

Solo quattro mesi dopo, il 20 aprile 1993, don Tonino sarebbe morto.

Ancona, 13 dicembre 1992 di ritorno da Sarajevo: a destra don Tonino Bello, a sinistra don Albino Bizzotto

Solo chi perdona può parlare di pace

In questo periodo che ci avvicina a un altro Santo Natale martoriato dalle guerre, rileggo volentieri una delle sue “lezioni” sul dono prezioso della pace che viene dal saper perdonare. Che sia un augurio per tutti noi per questo Natale!

Solo chi perdona può parlare di pace e teorizzare sulla non violenza. Non vorrei essere frainteso. È vero: la pace è conquista, cammino, impegno. Ma sarebbe un brutto guaio se qualcuno pensasse che essa sia semplicemente il frutto dei nostri sforzi umani o il risultato del nostro volontarismo titanico o una merce elaborata nelle nostre cancellerie diplomatiche o un prodotto costruito nei nostri cantieri popolari.

La pace è soprattutto dono che viene dall’alto. È la strenna pasquale che Gesù ha fatto alla terra. È il regalo di nozze che ha preparato per la sua sposa. Con tanto di marchio di fabbrica: “Made in Cielo”. Qual è allora il ruolo degli operatori di pace? Quello di non respingere il dono al mittente. È in particolare, quello di rendere attuale e fruibile per tutti questo regalo di Dio. La pace, dunque, è dono. Anzi, è ” per-dono“. Un dono “per”. Un dono moltiplicato. Un dono di Dio che, quando giunge al destinatario, deve portare anche il “con-dono” del fratello.

E qui il discorso si fa concreto. Come possiamo dire parole di pace, se non sappiamo perdonare? Con quale coraggio pretendiamo che siano credibili le nostre scelte di pace a livello di massimi sistemi, quando nel nostro entroterra personale prevale la legge del taglione? Come possiamo rifiutare la “deterrenza” e respingere la logica del missile per missile, se nella nostra vita pratichiamo gli schemi dell’occhio per occhio e dente per dente? Quali liberazioni pasquali vogliamo annunciare, se siamo protagonisti di stupide smanie di rivincita, di deprimenti vendette familiari, di squallide faide di Comune? Chi volete che ci ascolti quando facciamo comizi sulla pace, se nel nostro piccolo guscio domestico siamo schiavi dell’ideologia del nemico?

Solo chi perdona può parlare di pace. E a nessuno è lecito teorizzare sulla non violenza o ragionare di dialogo tra popoli o maledire sinceramente la guerra, se non è disposto a quel disarmo unilaterale e incondizionato che si chiama perdono“.

A cura di Elena Cogo