Il 29 luglio 2013 veniva sequestrato a Raqqa padre Paolo Dall’Oglio. Sono passati 10 anni da quando di padre Paolo si sono perse le tracce.
Per trent’anni il gesuita italiano ha lavorato instancabilmente per costruire e alimentare il dialogo tra musulmani e cristiani in Siria, un Paese dove entrambe le comunità erano presenti e fortemente radicate.
Da allora la situazione in Siria non è migliorata, anzi. Da più di dieci anni nel Paese si combatte una guerra civile resa ancora più drammatica dalla violenza cieca del regime di Bashar al-Assad. Il tremendo terremoto che l’ha colpita lo scorso febbraio, insieme alla Turchia, ha peggiorato la situazione. Le Nazioni Unite stimano in oltre 15 milioni le persone che necessitano di aiuti umanitari su un totale di 22 milioni abitanti.
Nel 1991 nasce la comunità di Mar Musa
Nato a Roma nel 1954, Paolo Dall’Oglio è entrato nella Compagnia di Gesù a 21 anni. Si è trasferito giovanissimo a Beirut, in Libano, per studiare la lingua araba ma soprattutto “per farsi arabo”, come lui stesso ripeteva, ed è entrato a far parte della chiesa siro-cattolica. Nel 1982 ha scoperto in Siria, nel deserto del Qalamun, il monastero di Mar Musa che ha restaurato e dove nel 1991 ha fondato la comunità monastica dedicata all’amicizia islamo-cristiana.
Nel 2012 viene espulso dalla Siria per le sue posizioni contro il regime. Raqqa, come molte altre città in quel periodo, era in aperta rivolta contro il regime di Assad ma stava per essere occupata dalle truppe del sedicente Stato islamico che ne avrebbe fatto la propria capitale. Padre Paolo ha fatto ritorno clandestinamente nel Paese per mediare con i leader jihadisti e chiedere anche notizie di due vescovi rapiti, uno greco-ortodosso, l’altro siriaco-ortodosso.
Da quel momento non si sono più avute notizie certe sulla sorte del gesuita italiano, il cui sequestro non è mai stato rivendicato. Nell’ottobre 2022 anche la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione dell’indagine sul sequestro per l’impossibilità di accertarne la sorte dal punto di vista giudiziario.
Racconta Pietro Dall’Oglio, fratello di padre Paolo: “Lui ha dato veramente un senso alla vita: era veramente l’espressione massima della speranza, dell’unità, del dialogo tra religioni. Lui era profondo ma una persona allegra, ho tantissimi ricordi come fratelli, eravamo otto fratelli. Come si vive con l’idea di non sapere dove si trova una persona a cui si vuole così bene? È inspiegabile, però io sento sulla pelle la sua presenza, la passione e l’amore anche per un Paese disastrato da una dittatura”.
Uno spirito libero, uno sguardo lieve
Nel decimo anniversario del rapimento di padre Paolo Dall’Oglio sono stati pubblicati due libri utili per conoscere meglio la sua figura e la sua storia. Paolo Dall’Oglio. Il mio testamento (Centro Ambrosiano, 2023) con la prefazione di papa Francesco è un vero e proprio testamento spirituale, da cui emergono chiari i temi a lui più cari.
Papa Francesco lo definisce “uno spirito libero, che rifiuta formalismi e frasi di circostanza; a volte estremo, come lui stesso riconosce con una dose di autoironia”. E scrive: “Sappiamo ciò che lui non avrebbe desiderato: incolpare della sua misteriosa e drammatica scomparsa l’Islam in quanto tale; rinunciare a quel dialogo appassionato in cui lui ha sempre creduto con lo scopo di riscattare l’Islam e i musulmani”.
È questo forse il punto fondamentale. Il rischio è quello di stravolgere e manipolare la realtà considerando padre Paolo Dall’Oglio “una delle tante vittime dei gruppi estremisti islamici, una sorta di sognatore naïf – scrive Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera – che nella vana e illusoria utopia di cercare un dialogo di pacificazione nazionale veniva barbaramente assassinato da quelle stesse forze del male che adesso i militari di Assad con i loro alleati hanno finalmente debellato”. In realtà padre Paolo era un personaggio scomodo e ingombrante per il regime, come anche per una parte della Chiesa locale: in più occasioni aveva denunciato le corruzioni e la dubbia moralità di alcuni alti prelati siriani.
Continua papa Francesco nella prefazione: “Non si trattava di tattica politica ma dello sguardo di un missionario che sperimenta, innanzitutto su di sé, la potenza della misericordia di Cristo. Uno sguardo non fondamentalista, ma lieve, pieno di quella speranza che non delude perché riposa in Dio. Sempre aperto al sorriso”.
Ha scelto di farsi arabo
L’altro libro che ci aiuta a delineare la figura e l’operato di padre Paolo Dall’Oglio è Una mano da sola non applaude del giornalista vaticanista Riccardo Cristiano (Ancora, 2023). In un’intervista di Altreconomia lui stesso spiega: “Ho scelto di parlare di padre Paolo al passato perché non voglio dare impressione di non fare i conti con la realtà: sono passati dieci anni ed è molto difficile immaginare un esito diverso. Questo però va fatto per cercare di portare Paolo Dall’Oglio nel presente, nella storia di oggi. Portarlo nel presente vuol dire fermarsi a riflettere sull’enormità di quello che ha fatto”.
“Durante il suo percorso di formazione in Libano negli anni Ottanta – afferma Riccardo Cristiano – padre Paolo ha scelto di ‘farsi arabo’ una caratteristica propria dei gesuiti: l’inculturazione, che vuole fare entrare il cristianesimo nelle altre culture, adattandolo ad esse, non imponendolo come un veicolo di occidentalizzazione. Questa inculturazione risponde a una chiamata molto precisa: mancano pochi anni alla caduta del Muro di Berlino e Dall’Oglio aveva capito che presto ci sarebbe stato bisogno di un nuovo nemico, che sarebbe stato individuato nell’Islam. Per trent’anni, con il suo apostolato in Siria, ha lavorato proprio per contrastare questa deriva, per evitare che questo scontro -che pure ha radici storiche- diventasse ideologico”. Padre Dall’Oglio era convinto che le Primavere arabe del 2011 fossero un’occasione per costruire “quel Mediterraneo delle cittadinanze che archiviasse l’ideologia dello scontro delle civiltà, delle protezione o dell’invasione”. Per questo, dopo l’espulsione decretata dal governo di Damasco nel 2012, aveva deciso di rientrare clandestinamente in Siria.
Riccardo Cristiano spiega di “aver visto allontanarsi ogni giorno di più la verità su di lui. E non riusciremo a trovarla fino a quando non vorremo ricostruire la verità sulla tragedia siriana”.
A ogni sorgere del sole ho scelto di credere
A 80 km circa a nord di Damasco, ancora oggi si trova la comunità monastica di Deir Mar Musa al-Habashi (monastero di San Mosè l’Abissino) fondata da padre Paolo Dall’Oglio. Attualmente sono otto le persone che lo abitano: quattro monache, tre monaci e un novizio; cinque siriani, una libanese, una tedesca e uno svizzero. Padre Jihad Youssef, 47 anni, è il superiore della comunità.
In questi dieci anni la situazione in Siria si è fatta sempre più drammatica: la guerra non è conclusa, i morti si stimano attorno a mezzo milione, i rifugiati interni sono quasi 7 milioni e più di 5 milioni quelli nelle regioni circostanti. Poi si sono aggiunti l’embargo, il crollo economico del vicino Libano, il Covid e nei mesi scorsi la tragedia del terremoto.
“Il popolo è angosciato e depresso – commenta padre Jihad Youssef intervistato da Famiglia Cristiana – Non puoi pensare ad altro se non al pane e alla scuola dei ragazzi. Nel cuore umano la speranza c’è ancora, resiste perché siamo un popolo vivo e creativo, ma l’incertezza rende la vita un sopravvivere”. Nonostante tutto, padre Youssef è un uomo sereno: “Paolo mi ha insegnato che il Signore viene prima di tutto e non c’è che un solo Signore. A tenere alta la speranza è Dio, l’immagine di Dio in noi. Non trovo altra giustificazione a questa nostra resistenza”.
“Noi siriani – racconta padre Jihad – ci siamo uccisi, odiati, divisi e abbiamo desiderato l’annientamento l’uno per l’altro. Durante questa guerra assurda, che ancora non finisce, abbiamo avuto paura. Mi sono chiesto: se Dio esiste, perché non fa nulla?”.
Eppure la Comunità è rimasta: “A ogni sorgere del sole ho e abbiamo scelto di credere, di avere fede in Dio che c’è e che non ci abbandona. Ci siamo sentiti sostenuti e sollevati dalla preghiera di tante persone, cristiane, musulmane e non credenti. Abbiamo discusso e litigato se rimanere o abbandonare Deir Mar Musa. Non abbiamo avuto visioni né risposte tramite sogni o angeli. Siamo rimasti non perché forti, né per diventare eroi o per sfidare qualcuno. Non abbiamo cercato un martirio ingenuo e a buon mercato. Siamo rimasti per fedeltà al Signore, che ci ha chiamati qui e che non ci ha chiesto di andarcene, siamo rimasti in solidarietà con i cristiani delle nostre parrocchie e con i nostri amici musulmani. Siamo rimasti guardando oltre e aspettando la seconda venuta di Cristo”.
“Un dialogo di successo lascia un senso di comunione: ciò che sembrava contrapposto è ormai in armonia. Ciò che era diverso è diventato complementare. Ciò che faceva paura da quel momento in poi nutre la fiducia.” (dalle riflessioni di padre Paolo dall’Oglio)
A cura di Elena Cogo