Annalena, una vita per gli ultimi

Vent’anni fa, il 5 ottobre 2003, Annalena Tonelli veniva uccisa a Borama, in Somaliland. Un unico sparo l’ha raggiunta alla testa proprio davanti all’ospedale che aveva creato, in quella terra dura e ostile dove lei aveva scelto di vivere, tra i “suoi” amati somali. Aveva sessant’anni, di cui trentaquattro trascorsi in Africa a servizio degli ultimi, in nome di Dio.

Due cose, tra le altre, colpiscono di lei. Ha vissuto come missionaria laica, indipendente da qualsiasi congregazione, istituto missionario o organizzazione non-governativa, dunque senza protezione. Donna, giovane, bianca e cristiana, sola in un mondo musulmano.

Non era medico, ma l’amore per i malati di tubercolosi la porta a studiare fino a mettere a punto un trattamento che consente la guarigione in un tempo di sei mesi. Protocollo adottato come policy dall’Oms per il controllo della tubercolosi nel mondo e applicato in molti Paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America e anche dell’Europa. 

Una donna fuori dal comune: intelligente, indipendente, piena di energie, lavoratrice indefessa e grande organizzatrice. Ma soprattutto si distingueva per la straordinaria dedizione ai suoi ammalati e per la profonda spiritualità, che l’avevano portata a scegliere gli ultimi in nome di Gesù, a consacrare in loro la sua vita affinché fosse degna di essere vissuta” come la definisce Anna Pozzi su Avvenire. 

La sua vita per i sofferenti 

Nata a Forlì nel 1943, Annalena Tonelli era la terza di cinque figli. Raccontò di aver sentito la chiamata a donarsi agli altri fin da piccolissima. “Scelsi che ero una bambina di essere per gli altri, i poveri, i sofferenti, gli abbandonati, i non amati, e così sono stata e confido di continuare fino alla fine della mia vita; volevo seguire solo Gesù Cristo, null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri per Lui”. Nel 1963 contribuisce a far nascere il «Comitato contro la fame nel mondo», ancora oggi attivo a Forlì. Ma nel suo cuore cresce il desiderio di partire per dedicarsi ai poveri dell’India.

Dopo la laurea, nel 1969 finalmente riesce a partire, non per l’India, bensì per Nairobi in Kenya con l’incarico di insegnare inglese nelle scuole dei Missionari della Consolata. Nel 1970 chiede di essere assegnata a Wajir, villaggio nel deserto del nord-est del Kenya perché rispondeva alla sua esigenza di “predicare il vangelo con la vita” nel mondo musulmano, secondo la spiritualità di Charles de Foucauld. Qui fonda una piccola comunità di laiche missionarie dedicate in particolare ai nomadi del deserto e un Centro di riabilitazione per malati e disabili.

È nel 1976 che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) le chiede di diventare responsabile di un progetto pilota per la cura della tubercolosi tra i nomadi. Apre la TB Manyatta: in 9 anni vengono trattati e accuditi 1500 pazienti. Nel 1985 Annalena viene espulsa dal Kenya come “persona non gradita” per aver denunciato il massacro avvenuto il 10 febbraio 1984 all’aeroporto di Wagalla.

Nel 1991 torna in Africa, in Somalia, prima a Mogadiscio, poi a Merka e nel 1996 a Borama, dove rimarrà per il resto della sua vita. È qui che fonda un ospedale con 250 letti per i tubercolotici e gli ammalati di AIDS e segue una scuola per bambini sordi e disabili. Credeva molto infatti nell’istruzione come strumento per evolvere la situazione economica e sociale. Si oppone alla pratica delle mutilazioni genitali femminili e si tiene in costante aggiornamento, con diplomi a Londra e in Spagna per la cura delle malattie tropicali e della lebbra.

Il 25 giugno 2003 riceve dall’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati il premio Nansen Refugee Award per la sua opera a favore dei rifugiati e dei perseguitati. E a distanza di pochi mesi, il 5 ottobre 2003, mentre compiva l’ultimo giro tra gli ammalati di Borama, Annalena viene uccisa con un colpo alla nuca, partito da un’arma da fuoco.

Per suo espresso desiderio, le sue ceneri sono nel deserto di Wajir, in Kenya.

l primo amore: i malati di tubercolosi 

Nelle testimonianze e nei racconti di Annalena ritornano spesso gli anni trascorsi a Wajir. Come la prima volta in cui donò il suo sangue a un bambino e invitò i suoi studenti a fare altrettanto. La reazione fu scettica, ma quando uno di loro si fece coraggio anche altri riuscirono a superare i pregiudizi e le chiusure di quel mondo estremamente tradizionalista.

Il mio primo amore furono i malati di tubercolosi, la gente più abbandonata, più rifiutata in quel mondo. Ero a Wajir, nel cuore del deserto del nord-est del Kenya, quando conobbi i primi malati e mi innamorai di loro, e fu un amore per la vita. Non sapevo nulla di medicina. Cominciai a portare loro l’acqua piovana che raccoglievo dai tetti della bella casa che il Governo mi aveva data come insegnante. Loro mi facevano cenni di comando apparentemente disturbati dalla goffaggine di quella giovane donna bianca. Tutto mi era contro. Ero giovane e dunque non degna né di ascolto né di rispetto. Ero bianca e dunque disprezzata da quella razza che si considera superiore a tutti. Ero cristiana e dunque disprezzata, rifiutata, temuta. Erano convinti che io fossi andata a Wajir per fare proseliti. E poi non ero sposata, un assurdo in quel mondo, in cui il celibato non esiste e non è un valore per nessuno, anzi è un non valore”.

Il cammino è stato lungo e spesso segnato da sofferenza, discriminazione e diffidenza. Ma lei traeva la forza nella preghiera contemplativa, nella meditazione di testi di autori spirituali e nell’adorazione eucaristica, quando possibile.

La tubercolosi: stigma e maledizione 

Quando rientrò in Somalia nel 1991, il Paese era alle prese con una drammatica guerra civile. “A quel tempo ho dovuto assumere due persone solo per seppellire i morti. In poco più di due mesi oltre mille bambini sono morti di fame e di tubercolosi. In casa tenevo 600 piccoli tubercolotici per cercare di assisterli giorno e notte e ogni giorno sfamavo oltre tremila persone.

A Borama, nell’auto-proclamata Repubblica del Somaliland, Annalena non solo aveva creato un ospedale per la cura della tubercolosi, ma soprattutto aveva portato una luce di speranza a tanti ammalati e poveri. “La tubercolosi – scriveva – è parte della gente, della sua storia della sua lotta per l’esistenza. Eppure la tubercolosi è stigma e maledizione: segno di una punizione mandata da Dio per un peccato commesso, aperto o nascosto. A Borama continua la lotta ogni giorno per la liberazione dall’ignoranza, dallo stigma, dalla schiavitù ai pregiudizi. A tutt’oggi, noi siamo testimoni di gente che sceglie di non essere diagnosticata, curata e guarita, e che dunque sceglie di morire pur di non dovere ammettere in pubblico di essere affetta dalla tubercolosi. Ogni giorno discutiamo con loro di ciò che li tiene schiavi, infelici, nel buio. E loro si liberano, diventano felici, sono sempre più nella luce”.

Il dono più straordinario: i nomadi del deserto

L’enorme lavoro, come spesso accade, le era valso la stima di gran parte della popolazione, ma anche l’odio e l’inimicizia dei più tradizionalisti ed estremisti islamici. Era stata minacciata più volte ma non se ne curava. In molti non sopportavano la straniera “infedele”, che cercava di rompere un ordine stabilito da sempre e soprattutto di mettere in discussione il potere. “Un imam predicava contro di me dalla moschea, dicendo di uccidere la bianca infedele che aveva portato l’aids e la tubercolosi e che accoglieva in nemici in ospedale. L’ho voluto incontrare e gli ho detto che lui mi aveva già uccisa con le sue parole. Da quel momento siamo diventati amici e lui è diventato uno dei miei più grandi sostenitori”.

Annalena sentiva l’ostilità, ma distingueva la popolazione che praticava un islam moderato e tollerante, dai gruppi di fanatici estremisti, spesso finanziati e indottrinati dall’esterno.

Il dono più straordinario, il dono per cui io ringrazierò Dio e loro in eterno, è il dono dei miei nomadi del desertoMusulmani, loro mi hanno insegnato la fede, l’abbandono incondizionato, la resa a Dio, una resa che non ha nulla di fatalistico, una resa rocciosa e arroccata in Dio, una resa che è fiducia e amore. I miei nomadi del deserto mi hanno insegnato a tutto fare, tutto incominciare, tutto operare nel nome di Dio”.

Andiamo da Annalena!

La memoria di Annalena Tonelli è ancora viva e continua a dare frutti, soprattutto a Waijr in Kenya. Qui la gente dice ancora “Andiamo da Annalena!” per riferirsi al suo Centro di riabilitazione, oggi gestito dalle suore camilliane. Ogni mattina il pick-up che funge da ambulanza raccoglie bambini e disabili nei villaggi per condurli al Wajir Mission Rehabilitation Centre. Sono proprio i bambini e i giovani con disabilità fisiche e intellettive, che le famiglie tengono nascosti in casa per la vergogna, i pazienti privilegiati di questo Centro dove operano suor Rosemary, superiora della comunità delle camilliane, quattro religiose keniane e una ruandese. Dopo la fisioterapia, si fa scuola, si pranza e si praticano diverse attività, per poi riaccompagnarli a casa nel pomeriggio. Sono circa 35 i pazienti, mentre 380 le persone che beneficiano delle attività del dispensario.

A cura di Elena Cogo

 

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