L’ampia storia della cooperazione della Diocesi di Padova con la Chiesa ecuadoriana verrà terminata nei prossimi mesi, come annunciato dal vescovo Claudio in occasione della festa in onore a San Gregorio Barbarigo. Noi missionari, gli ultimi di questo lungo percorso, sentiamo la forza di chi ci ha preceduto. Ci sentiamo come i fiumi della costa ecuadoriana che raccolgono gli esuberanti corsi d’acqua che scendono dalla Sierra. È necessario, sennonché affascinante, dare uno sguardo al passato per apprezzare la cooperazione in Ecuador.
Risale all’anno 1957 l’invio del primo missionario padovano per unirsi ai religiosi Giuseppini nella difficile regione amazzonica del Napo, nel desiderio di attuare da subito lo spirito della lettera Enciclica Fidei Donum di Pio XII, donata alla chiesa universale proprio in quell’anno. Era il tempo degli audaci pionieri che si aprivano il cammino a colpi di machete come gli indios locali.
La spinta alla cooperazione missionaria ha trovato forte impulso e visione articolata con il Concilio Vaticano II vedendo la nostra diocesi inviare fino ai nostri giorni una sessantina fra preti e laici. Essi operarono in differenti realtà geografiche ed altrettante giurisdizioni ecclesiastiche a partire dalle alte e fredde Ande del Carchi, alla cima del vulcano Imbabura riflessa nel lago San Pablo e scendendo nella calorosa ed umida provincia di Esmeraldas. Dopo un decennio di servizio nelle impervie zone rurali ci fu la nuova riflessione di concentrare la presenza dei missionari fidei donum nella periferia della capitale Quito, dal momento che iniziava con impeto il fenomeno delle invasioni nelle cinture urbane. La decisione di lasciare le zone rurali non fu accettata di buon grado: cambiava completamente la realtà. Dai colori della rigogliosa natura alla polvere del settore semidesertico del nord di Quito fino al grigiore delle recenti urbanizzazioni. Dalle affascinanti tradizioni delle piccole comunità alla globalizzazione della metropoli che scalza la bellezza degli abiti indigeni e gli accenti linguistici. Iniziava così una lunga sfida accompagnando a chi cercava la fortuna della città di sentirsi parte integrante della comunità che li accoglieva nella nuova “casa”. Nel 2016 terminava la collaborazione con la diocesi di Quito mentre nel 2013 iniziava la missione nella neonata diocesi di San Jacinto, suffraganea di Guayaquil. Si passava quindi dall’eterna primavera di Quito all’ umido equatoriale della costa affacciata sul Pacifico. Dalle cime dei vulcani alla pianura bagnata dai grandi fiumi. L’idea che ci aveva portato a servire la nuova diocesi sarebbe stata limitata a soli cinque anni per avere un tempo di riflessione per una possibile nuova apertura in Ecuador o in un altro paese dell’ America Latina. La disponibilità era stata messa completamente nelle mani del vescovo locale per “andare laddove nessuno vuole andarci”. In questo modo la scelta si determinò sulla zona nord di Duràn (città di mezzo milione di abitanti alla periferia di Guayaquil, la cosiddetta “perla del Pacifico”) lievitata in modo spaventoso e disordinato negli ultimi 20 anni per il costante esodo dalle campagne e trovandosi impreparata nelle gestione dei servizi basici (acqua potabile,energia elettrica, rete fognaria, salute pubblica) come pure nella creazione di nuove parrocchie. La nostra presenza è iniziata nella parrocchia Nuestra Señora de los Àngeles (la Porciuncula, con la cappella del Guayco). Nel frattempo ci si preparava alla creazione della nuova parrocchia Nuestra Señora del Perpetuo Socorro (Arbolito) in cui si insediavano le suore Elisabettine per un servizio attento ai poveri e alla formazione dei bambini. La pastorale non si limitava al quartiere ma alla vasta parte rurale dei recintos. Nello stesso periodo veniva affidata al gruppo dei missionari anche la parrocchia di San Francisco de Asìs, di più antica creazione rispetto a quest’ultima.
Nel lungo scorrere della cooperazione credo possiamo sintetizzare l’operato in tre parole: poveri, comunità e fraternità. Sono queste le coordinate che fanno la missione e che fondano la Chiesa, come ci ricorda Papa Francesco “è la missione che fa la Chiesa”. I poveri sono i nostri amici nel peregrinare in questa vita alla ricerca del buon pane e dell’acqua fresca che è Cristo. Costruendo la comunità in cui tessere le relazioni tra le persone scopriamo il volto di Cristo. La fraternità tra i missionari (preti, laici e suore) è lo stile che caratterizza la vita del discepolo, andando oltre le forme di egoismo.
E poi chissà quanta altra bellezza avrà sperimentato ogni missionario, ogni persona, ogni diocesi e parrocchia che si è lasciato coinvolgere dalla Pentecoste della condivisione della fede! In questi giorni stiamo comunicando la notizia della futura partenza alla nostra gente. A causa del distanziamento per la pandemia siamo costretti a farlo “a distanza” o via internet e vediamo, seppur attraverso i filtri dello schermo del computer, gli occhi lucidi di chi non ci vuole mollare. Gli occhi, lo sguardo, che talvolta in questo periodo della pandemia sono l’unica parte scoperta del viso, li contempliamo come la trasparenza delle emozioni e l’obiettivo dell’anima che immortala ciò che vale veramente nella vita.
Lasceremo questa terra che per tanti anni ha accolto numerosi missionari, amici, familiari, visitanti creando veramente occasioni di grazia per tutti. Ancora una volta come Chiesa di Padova ci affideremo e ci fideremo dello Spirito per continuare a costruire il Regno di Dio. Da un’altra parte.
Don Saverio, Don Mattia, Francesca e Alessandro