Cambiamento climatico, sfida mondiale

Una primavera caratterizzata da una delle siccità più lunghe degli ultimi anni. Poi sono arrivate le alluvioni, con casi davvero drammatici anche nel nostro Paese. Poi il caldo torrido con temperature da record, seguito da grandinate con chicchi di dimensioni esagerate e dagli incendi, quando non sono opera dell’uomo. La natura sembra non perdere un’occasione per mandare segnali e dirci che è arrivata l’ora di occuparsi di questo nostro pianeta.

Il rischio è quello di travisare il messaggio, trattando ogni evento atmosferico come emergenza, tamponando i danni dopo che il dramma si è consumato. Anziché fare davvero piani a lungo termine per arrivare prima.

Ma esiste un rischio ancora maggiore, che è quello di piegarsi su di sé, sui propri problemi, senza allargare l’orizzonte. Il cambiamento climatico è un affare mondiale, che nei prossimi anni influenzerà agricoltura, pandemie, migrazioni, conflitti. Per questo occorre affrontare il problema.

Perché il cambiamento climatico è un problema

Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico è l’obiettivo numero 13 dell’Agenda 2030.

Tra le prime conseguenze a cui si fa riferimento quando si parla di cambiamento climatico ci sono: temperature più elevate, fenomeni meteorologici più intensi, aumento della siccità, innalzamento degli oceani, perdita di biodiversità.

Ma le ripercussioni vanno oltre l’ambiente naturale, invadono ad esempio la sfera sanitaria, favorendo la diffusione di nuove malattie o di epidemie che pensavamo debellate. Hanno a che fare con le attività legata all’agricoltura, al pascolo, alla pesca, all’allevamento e dunque anche con l’insufficienza di cibo nel mondo. Fino al fenomeno delle migrazioni ambientali, con popolazioni costrette a spostarsi perché il territorio nel quale vivono è diventato inospitale.

Naturalmente non si tratta di un percorso lineare, la relazione tra i fenomeni è complessa. Ciò significa che non è automatico che si arrivi a queste conseguenze.

Migranti ambientali e conflitti territoriali

Nel report 2022 di LegambienteMigranti ambientali, gli impatti della crisi climatica” si legge che a pagare il prezzo più alto della crisi climatica sono i gruppi sociali più fragili. O perché hanno un limitato accesso a servizi e risorse, o perché vivono in uno stretto rapporto di sussistenza con il territorio. Le stime riportano che approssimativamente 3 miliardi e 300 milioni di persone, pari a oltre il 40% della popolazione mondiale, vive in contesti di estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici.

L’Africa occidentale, centrale e orientale, l’Asia meridionale, l’America centrale e meridionale, i piccoli stati insulari in via di sviluppo, l’Artico: sono queste le macroregioni considerate più vulnerabili. A conferma di ciò, in queste aree tra il 2010 e il 2020 la mortalità a causa di eventi estremi come inondazioni, tempeste e siccità è stata di 15 volte superiore rispetto alle altre regioni.

Prendiamo ad esempio il Pakistan: ondate di caldo eccezionale, verificatesi tra aprile e maggio 2022, con temperature oltre i 40 °C per periodi prolungati in molti luoghi del paese, sono state seguite dalle drammatiche inondazioni che ancora ricordiamo, causate dalle piogge monsoniche ininterrotte da giugno ad agosto. Un disastro che ha coinvolto oltre 33 milioni di persone e causato oltre 1.500 morti.

Il peggioramento delle condizioni ambientali può diventare inoltre causa o concausa di conflitti territoriali. Secondo lo studio “Il clima come fattore di rischio per i conflitti armati” pubblicato dalla rivista Nature, dal 3% al 20% dei conflitti avvenuti durante lo scorso secolo ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima.

L’accaparramento delle risorse territoriali, quando queste scarseggiano e allo stesso tempo rappresentano l’unica sopravvivenza per i locali, è uno dei casi più noti alla base di conflitti tra gruppi sociali. Nella regione africana del Sahel, ad esempio, sono ricorrenti ostilità tra agricoltori e pastori, che rappresentano circa il 70% della popolazione, proprio per questioni di uso del suolo e di accesso alle risorse idriche. I lunghi periodi di siccità da una parte e le inondazioni dall’altra, sempre più frequenti, non fanno che peggiorare le tensioni.

 

Uniti per una grande sfida

Gravità, urgenza e speranza sono le tre parole simbolo che emergono dall’ultimo rapporto dell’Ipcc, gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite. Emettiamo più di 50 miliardi di tonnellate di gas serra, la concentrazione di CO₂ nell’aria è salita a 420 parti per milione, l’ultimo decennio è stato il più caldo degli ultimi 125.000 anni. Il 10% più ricco del Pianeta genera il 35-45% delle emissioni globali, mentre il 50% più povero appena il 13-15%.

Eppure c’è ancora speranza, si legge nel rapporto. “Se agiremo con ambizione, otterremo risultati positivi anche per la salute, per la sicurezza alimentare, per lo sviluppo”. L’umanità sta affrontando il problema insieme, e più si unirà dietro questa grande sfida più avremo successo. “Bisogna trasformare la procrastinazione climatica in azione climatica”.

Nella Laudato si’ di Papa Francesco si legge: “L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano”.

“Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana”. “La protezione ambientale non può essere assicurata solo sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di promuovere adeguatamente”.

Crescita senza crescita economica, un paradosso?

Nel gennaio 2021 l’European environment agency (Eea), l’agenzia europea dell’ambiente ha parlato di Growth without economic growth, una crescita senza crescita economica. La necessità cioè di rivedere il nostro sistema economico, di slegare il concetto di progresso e di benessere alla crescita esclusivamente economica, che prevede quindi l’aumento della produzione, del consumo e dell’utilizzo delle risorse. Un’economia che, come abbiamo visto fin qui, ha effetti dannosi sull’ambiente naturale e sulla salute umana. Le società devono ripensare al significato di crescita e progresso in funzione della sostenibilità globale. Questa dovrebbe essere la priorità della politica. Purtroppo queste grandi transizioni hanno bisogno di molto tempo per realizzarsi.

Una spinta può venire certamente anche dal basso, come in effetti è avvenuto in questi anni, grazie al movimento dei giovani che ha saputo catalizzare l’informazione e l’opinione pubblica. D’altronde la green economy si basa su 4 pilastri molto concreti: la casa e l’energia, i trasporti, il cibo e i consumi materiali. Aspetti legati a scelte e comportamenti quotidiani, che se adottati su larga scala possono creare pressioni su governi, leader, multinazionali.

La buona notizia è che c’è un’alta sensibilizzazione verso questi argomenti, soprattutto nelle nuove generazioni che capiscono quanto sia urgente affrontare il problema.

 “Non dobbiamo mai dimenticare che le giovani generazioni hanno diritto a ricevere da noi un mondo bello e vivibile, e che questo ci investe di gravi doveri nei confronti del creato che abbiamo ricevuto dalle mani generose di Dio. Io sto scrivendo una seconda parte della Laudato si’ per aggiornare i problemi attuali”. Papa Francesco, 21 agosto 2023

A cura di Elena Cogo