Abbracciare la fragilità

Offrire segni di speranza agli ammalati

Nella Bolla di indizione del Giubileo, papa Francesco invita a offrire segni di speranza agli ammalati che si trovano a casa o in ospedale, mettendo in pratica quelle che sono vere e proprie opere di misericordia: la vicinanza, la visita, l’affetto. E invita alla gratitudine verso gli operatori sanitari. La cura per i più deboli e vulnerabili “è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera”.

Ed è per questo che tra gli appuntamenti dell’Anno Santo, il 5 e 6 aprile 2025 si celebra il Giubileo degli Ammalati e del Mondo della Sanità, il 28 e 29 aprile 2025 il Giubileo delle persone con disabilità.

Nel messaggio per la Giornata mondiale del malato 2025, tenutasi l’11 febbraio scorso, Francesco invitava a riflettere sulla presenza di Dio vicino a chi soffre, in particolare sotto tre aspetti: l’incontro, il dono e la condivisione.

Gesù, quando invia in missione i settantadue discepoli, li esorta a dire ai malati: «È vicino a voi il regno di Dio» e in questo modo chiede loro di aiutare gli ammalati a vedere la propria condizione come un’opportunità di incontro con il Signore. La malattia vista come esperienza della vicinanza e della compassione di Dio. Per quanto difficile, rivoluzionario e inarrivabile possa apparire questo punto di vista, è proprio da qui che nasce la speranza intesa come dono. “Mai come nella sofferenza ci si rende conto che ogni speranza viene dal Signore, e che quindi è prima di tutto un dono da accogliere e da coltivare”. I luoghi in cui si soffre diventano così luoghi di condivisione in cui ci si arricchisce a vicenda. Quante volte, stando vicino a chi soffre, si impara a sperare e a credere dice papa Francesco.

Giubileo all’OPSA, un laboratorio di cura

Il pellegrinaggio verso gli ammalati si fa concreto e può trasformarsi in un “laboratorio di cura”, come avviene all’OPSA Opera della Provvidenza Sant’Antonio di Sarmeola di Rubano, recentemente elevata a santuario in onore di Maria Madre della Provvidenza e quindi luogo giubilare.

La struttura residenziale accoglie persone con grave disabilità intellettiva, accompagnata spesso da altre forme di disabilità. Una visita qui, come spiega don Roberto Ravazzolo, direttore generale dell’OPSA e rettore del Santuario, diventa esperienza in cui toccare con mano cosa significa accogliere e abbracciare la fragilità.

Per approcciarsi alle disabilità e alla non autosufficienza bisogna conoscerle. Sarebbe bello che chi entra qui come pellegrino-visitatore, uscisse con la voglia di mettersi in gioco e diventare un “creatore di speranza”, partecipando al bene che qui opera ogni giorno”.

Tra le diverse attività proposte, anche la Via Vitae, un percorso a nove tappe che nasce dalla consapevolezza che farsi carico delle fragilità vuol dire scoprire che quelle stesse fragilità, che appaiono come “croci”, in realtà sono la testimonianza di vite non deluse dalla speranza e trasformate in vita nuova.

L’America chiude i finanziamenti

Rivolgendo lo sguardo al mondo, in questo periodo, non si può non provare una certa preoccupazione per il clima che si respira. Anche rimanendo nell’ambito sanitario, certe scelte percorrono strade inattese e aprono scenari nuovi, a cui non eravamo preparati.

L’uscita degli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della sanità rischia di scombinare gli equilibri della salute globale. L’Oms si sta preparando al peggio, anche nel timore di un effetto domino che porti altri Paesi a intraprendere la stessa strada.

Gli Stati Uniti sono da sempre i principali finanziatori, contribuendo, come si legge ne Il Sole 24ore, per più del 15% sull’intero budget e mettendo a disposizione uffici, banche dati e ricercatori. Sono tantissimi i progetti sostenuti direttamente dagli USA, come la lotta contro l’Hiv-Aids da cui ha salvato 26 milioni di vite e come le altre numerose iniziative portate avanti in Africa. Dal contrasto al “vaiolo delle scimmie” nella Repubblica Democratica del Congo e in altri cinque Paesi africani, all’impegno contro la malattia di Marburg in Ruanda, fino alla lotta contro la terribile ebola che continua da anni. E proprio l’Africa è tra le aree del mondo dove l’effetto Trump sarà più drammatico. Sempre che il presidente non cambi idea: la firma è del 20 gennaio scorso, ma l’uscita ufficiale avverrà solo nel 2026.

Se la decisione rimarrà questa, l’ambizioso obiettivo dell’Oms di salvare altri 40 milioni di vite nei prossimi anni rischia di naufragare. Sette erano le priorità: aumentare il numero di vaccini consegnati, fornire accesso ai servizi sanitari a oltre 150 milioni di persone in trenta Paesi, portare elettricità da pannelli solari in 10mila ospedali, sostenere 55 Paesi nella formazione e arruolamento di 3,2 milioni di operatori sanitari, supportare 84 Stati nel raggiungere l’eliminazione della malaria e la trasmissione dell’Hiv da madre a figlio, potenziare l’accesso ai dati sanitari e pre qualificare 400 prodotti sanitari ogni anno. Programmi che ora chiedono di essere rivisti.

L’allarme del Cuamm

Le conseguenze delle prime azioni del Governo Trump hanno coinvolto anche i Medici con l’Africa Cuamm che dal 1950 hanno a cuore la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane. È di pochi giorni fa l’allarme del direttore don Dante Carraro per le difficoltà nel supporto alle popolazioni dopo la decisione degli Stati Uniti di chiudere il finanziamento a USAid.

Qualche giorno fa Donald Trump ha firmato l’ordine di fermare i finanziamenti di Usaid – ha spiegato don Dante intervistato dal Corriere del Veneto – dopo 24 ore i nostri ospedali in Uganda non avevano più i soldi per le ambulanze, per le sale operatorie, per le trasfusioni. Non abbiamo nemmeno più i soldi per pagare i dipendenti, l’amministrazione americana è stata rapida, determinata, ha agito in modo quasi violento”.

Nato nel 1961 per volontà del presidente Kennedy, l’Usaid è l’ente che supporta i progetti di sviluppo e sostegno alla salute dei Paesi poveri, sia con denaro che con personale specializzato. “In Uganda – continua don Dante – Usaid  supportava direttamente con mezzo milione di euro due nostri programmi nella regione del Karamoja: uno a Matany, dove ci occupiamo della salute di mamme e bambini con ambulanze, sale operatorie per i parti cesarei, vaccini, trasfusioni, l’altro a Moroto, dove abbiamo un’unità specializzata per la cura della Tubercolosi. In questi due centri da un giorno all’altro siamo rimasti senza fondi: non ci sono soldi per fare niente, è come se si fosse spenta la corrente, non possiamo pagare il personale del posto”.

Negli altri Paesi dove invece l’Usaid contribuiva con circa un terzo del bilancio dei vari ministeri e dipartimenti per la salute, gli effetti non sono fortunatamente così immediati, ma la direzione è tracciata e le conseguenze non possono che essere “farmaci e vaccini che non arrivano, le trasfusioni e gli interventi che non si possono fare… le persone che muoiono”.

Una vera emergenza. Il covid non ci aveva insegnato che siamo tutti sulla stessa barca e che nessuno si salva da solo? “Noi non ce ne andiamo, non possiamo cedere al male, dobbiamo credere che tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi abbia un senso, chiediamo l’aiuto di tutti, chiedo a Dio di darci la forza, faccio un atto di fede… spero ci stia guardando”.

 A cura di Elena Cogo