“Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia”. Così papa Francesco riassume la missione di don Lorenzo Milani e della sua scuola di Barbiana.
Oggi Barbiana, pur mantenendo lo stile dell’origine, è meta continua di gruppi e parrocchie, associazioni culturali, scolaresche, famiglie e singoli. Ma 70 anni fa, quando ci arrivò il giovane sacerdote nel 1954, Barbiana non era un piccolo paese e nemmeno un villaggio. Barbiana era una chiesetta con una canonica, senza acqua né luce, un cimitero e una ventina di case lontane, sparse nel bosco e nei campi circostanti. Non c’era nemmeno la strada, gli ultimi due chilometri Don Lorenzo li raggiunse a piedi risalendo una mulattiera, sotto una pioggia battente.
La parrocchia, destinata a chiudere, rimase aperta apposta per lui, prete scomodo e provocatore. Maestro che lascerà il segno nella sua lotta contro la disuguaglianza sociale attraverso l’istruzione.
Fra cinquant’anni mi capiranno
Don Lorenzo Milani non è stato compreso nel suo tempo, come del resto accade spesso ai grandi uomini. Lui stesso scriveva “Fra cinquant’anni mi capiranno” e così è stato. C’è voluto papa Francesco, nel 2017, primo papa della storia a pregare sulla sua tomba, per chiudere definitivamente quel percorso di rivalutazione iniziato con discrezione da papa Paolo VI. “Sono venuto a Barbiana per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve, perché sia difesa e promossa la loro dignità di persone, con la stessa donazione di sé che Gesù ci ha mostrato, fino alla croce”.
Trasparente e duro come un diamante
Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923 in una colta famiglia borghese. Nel 1930 la famiglia si trasferisce a Milano dove studia fino alla maturità classica, per poi dedicarsi alla pittura all’Accademia di Brera. Sembra che anche l’interesse per l’arte sacra abbia contribuito a far approfondire a Lorenzo la conoscenza del Vangelo. È in questo periodo infatti che conosce don Raffaello Bensi, che diventerà il suo direttore spirituale e lo definirà “trasparente e duro come un diamante”.
Nel 1942, a causa della guerra, la famiglia ritorna a Firenze. Nel 1943, a vent’anni senza l’approvazione della famiglia, entra in seminario e nel 1947 viene ordinato prete. Il suo primo incarico è a San Donato di Calenzano, a Firenze, come cappellano del vecchio parroco Daniele Pugi. È una realtà rurale molto arretrata, i suoi parrocchiani sono per la maggior parte analfabeti. Ed è proprio per loro che don Lorenzo fonda una scuola popolare serale.
Nel 1954 alla morte di don Pugi, anziché esser confermato a San Donato come i parrocchiani immaginavano, viene nominato priore di Barbiana. Dopo pochi giorni dal suo arrivo comincia a radunare i giovani della nuova parrocchia in canonica con una scuola popolare simile a quella di San Donato. Mentre il pomeriggio fa doposcuola in canonica ai ragazzi della scuola elementare statale. Nel 1956 rinuncia alla scuola serale per i giovani del popolo e organizza una scuola di avviamento industriale rivolta ai primi sei ragazzi che hanno finito le elementari.
Nel 1960 si manifestano i primi sintomi del linfoma che sette anni dopo lo porta alla morte, a soli 44 anni.
La forza della parola e la fiducia nell’uomo
Scomodo e provocatorio anche nelle sue pubblicazioni, il primo scritto di don Milani, “Esperienze pastorali”, viene ritirato dopo pochi mesi su disposizione del Sant’Uffizio perché ritenuto inopportuno. Per la successiva “Lettera ai Cappellani militari” che avevano definito l’obiezione di coscienza “estranea al Comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà”, don Milani viene addirittura rinviato a giudizio per apologia di reato.
Ma a scuotere il mondo della scuola, oltre che la Chiesa, arriva nel 1967 “Lettera a una professoressa”, scritta insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana, in un italiano semplice, proprio per rendere il testo accessibile a tutti. Il libro denuncia l’arretratezza e la disuguaglianza della scuola italiana che, scoraggiando i più deboli e spingendo avanti i più forti, sembra essere ispirata da un principio classista e non di solidarietà. Ma l’aspetto nuovo e rivoluzionario sta nelle due convinzioni che guidano la riflessione di don Milani: la forza della parola e la fiducia nell’uomo, in ogni uomo che ha in sé ricchezze infinite e deve essere messo in condizione di esprimerle.
L’ingiustizia sociale offende Dio
La scuola di Barbiana è all’avanguardia. Si studiano le lingue straniere: inglese, francese, tedesco e persino arabo; si organizzano viaggi di studio e lavoro all’estero. Si legge il Vangelo, ma senza indottrinare i ragazzi. Si tengono anche lezioni di recitazione per i più timidi, “quando c’è la neve sciamo un’ora dopo mangiato e d’estate nuotiamo un’ora in una piccola piscina che abbiamo costruito noi” si legge in una lettera dei ragazzi di Barbiana ai ragazzi di Piadena. “Abbiamo due stanze che chiamiamo officina. Lì impariamo a lavorare il legno e il ferro e costruiamo tutti gli oggetti che servono per la scuola”.
Ancora oggi sulla parete si legge il celebre motto della scuola: I care, mi riguarda, mi sta a cuore, mi prendo cura.
Scrive di don Lorenzo Milani, Michele Gesualdi, uno dei suoi primi allievi: “Per lui prete l’ingiustizia sociale era un male e andava combattuto perché offendeva Dio. Per lui prete la scuola era il mezzo per colmare quel fossato culturale che gli impediva di essere capito dal suo popolo quando predicava il Vangelo; lo strumento per dare la parola ai poveri perché diventassero più liberi e più eguali, per difendersi meglio e gestire da sovrani l’uso del voto e dello sciopero”.
A cura di Elena Cogo