A Rumbek abbiamo cominciato il cammino di Quaresima comunitariamente. Quest’anno infatti abbiamo vissuto la quindicesima assemblea pastorale della diocesi proprio a cavallo del carnevale e del Mercoledì delle ceneri. Ci siamo lasciati guidare dal tema della sinodalità e dal motto: Camminando insieme come Famiglia di Dio. Dopo un primo giorno dedicato alla preghiera e due giorni dedicati alle relazioni sia dei dipartimenti della diocesi che delle parrocchie, abbiamo fatto dei laboratori tematici su vari ambiti: la formazione e valorizzazione dei catechisti, la pastorale giovanile, la pastorale delle famiglie, la formazione umana integrale nelle scuole diocesane, la pastorale vocazionale e formazione permanente dei nostri agenti pastorali, il ministero della comunicazione sociale e il rafforzamento dell’amministrazione diocesana. Nell’ultimo giorno abbiamo riconosciuto alcune priorità e individuato un piano d’azione.
Ho anche colto l’occasione di dare alla diocesi la mia lettera pastorale che ci accompagnerà durante l’anno. Pur riconoscendo l’importanza di una programmazione fissata dentro un piano pastorale ben preciso, ho voluto ricordare le parole che papa Francesco ha lasciato ai vescovi, preti, religiosi e seminaristi durante la sua visita al Sud Sudan: “A volte ci capita di pensare di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani, come il denaro, la furbizia, il potere”. Invece dobbiamo riconoscere che l’altro è il nostro centro, le persone stesse, specie le più povere e vulnerabili. E la nostra opera non prende vita da noi stessi ma da Dio, e quindi siamo chiamati ad essere servi suoi e non invece signori che si servono di Lui per un nostro ideale seppur bello pur sempre fin troppo terreno. Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma siamo la comunità dei figli di Dio. Come Mosé dobbiamo toglierci i sandali con umile rispetto, spogliarci della nostra presunzione umana, lasciarci attrarre dal Signore e coltivare l’incontro con Lui nella preghiera. Solo il Signore può renderci liberi dal nostro orgoglio e ambizioni. Solo in Lui possiamo essere umili compagni di viaggio di quanti ci sono affidati.
L’assemblea si è chiusa ma non abbiamo rallentato il passo. Il cammino rimane aperto e da percorrersi insieme tutti i giorni. Da subito mi sono dedicato ad incontrare i diversi dipartimenti per dare direzione ai primi passi e fissare le prossime mete. Ho ricevuto anche la visita di alcuni amici: Tommaso, don Sebastiano Bertin e don Diego Cattelan della diocesi di Padova.
Insieme abbiamo vissuto due esperienze molto forti. La prima è stata la visita a un accampamento di gente che vive al seguito del loro bestiame. Ci siamo resi conto che la nostra pastorale si ferma spesso a un piccolo gruppo privilegiato di gente che vive stabilmente nei centri abitati, vanno in chiesa e mandano i figli a scuola. Come possiamo invece raggiungere tutte quelle persone che sono ai margini e vivono nell’instabilità e insicurezza? Come possiamo vivere una pastorale che sia proiettata verso l’esterno e che va incontro a chi non viene in chiesa e non frequenta le nostre scuole? La seconda esperienza è stata la visita alla gente di Nyang, località a Est di Yirol. Lì ci siamo imbattuti nella situazione drammatica degli sfollati Nuer che in migliaia stanno abbandonando la regione di Panyijiar alla ricerca di cibo proprio in questa zona abitata dai Dinka della sottotribù Ciec. Sono noti pregiudizi e inimicizia fra questi gruppi etnici. Allora nasce una domanda: si tratta di follia o disperazione? Non è disperazione, perché questa è solo per coloro che vedono la fine senza dubbio possibile. Ma non si tratta nemmeno di follia dal momento che si sceglie l’unica via possibile per cercare vita. Quindi possiamo parlare di saggezza quando, dopo aver perso tutto, si è pronti a riallacciare relazioni che si erano spezzate, nella speranza finalmente di promuovere vita.
Questi pensieri mi hanno fatto ricordare il motto di John H. Newman: Santità prima che pace. Tutti cerchiamo la pace. Ma quale pace? Cerchiamo forse una pace comoda? La fine di ogni preoccupazione! Magari evitando i problemi! E quindi anche schivando gli altri spesso visti come portatori di guai o, per lo meno, disturbatori della quiete pubblica. È la pace di chi passa oltre e non si fa carico delle povertà e sofferenze della gente. È una pace ipocrita. Gesù non si è dato pace. “Non sono venuto a portare pace” aveva detto Lui, ma un taglio netto con ogni ingiustizia e accomodamento con un sistema che promuove la morte della fraternità. La pace si deve fondare sulla verità e sulla santità della vita. Ecco perché vediamo Gesù in croce. Solo la santità si fa impegno e dono. Solo la santità si adopera per la giustizia e percorre la via della comunione e della vera pace.
Edith Stein ci metteva in guardia di non accettare un amore che manchi di verità. In Gesù crocifisso scopriamo invece l’amore nella sua verità più profonda e radicale. Buon cammino di Quaresima verso la vita nuova della Pasqua, una vita santa che non si dà pace, ma si fa dono.
+ Christian Carlassare
Vescovo di Rumbek – Sud Sudan