Si chiama “land grabbing”, letteralmente “accaparramento di terre” ed è un fenomeno in continua crescita. Solitamente effettuato da grandi multinazionali che acquisiscono enormi estensioni di terreno da utilizzare per la coltivazione intensiva di prodotti da esportare.
Le conseguenze sono deleterie sia per il suolo, che così sfruttato si impoverisce, sia per la popolazione locale, spesso violata nei propri diritti e costretta a spostarsi in altro luogo per sopravvivere. Una sorta di neo-colonialismo che negli ultimi anni sta interessando, oltre alla terra, anche l’acqua. Si parla infatti di “water grabbing” per indicare l’accaparramento di pozzi, indispensabili per la vita delle comunità indigene.
La storia di Delima e della “sua” foresta
Delima Silalahi è una donna indigena di 46 anni appartenente ai gruppi etnici Batak. Siamo nel nord di Sumatra, Indonesia. Delima è un’attivista ambientale, direttrice della ong KSPPM con la quale ha condotto una campagna per far sì che sei comunità indigene potessero riappropriarsi di oltre 17mila acri di foresta tropicale. Una grande azienda che opera nel settore della carta stava infatti trasformando il terreno in una piantagione industriale di eucalipto, una monocultura non autoctona che stava creando gravi danni alla biodiversità del territorio. Delima e il suo team hanno iniziato un lavoro lungo e paziente per organizzare le comunità locali, informando la popolazione di villaggio in villaggio. Impegno che le è valso il conferimento del Premio Goldman 2023, il più importante riconoscimento al mondo legato al tema della difesa e tutela dell’ambiente.
L’Indonesia, come ricordano i promotori del Premio Goldman nella motivazione, “è uno dei Paesi con maggiori responsabilità nell’aumento dei gas serra per via del taglio e dell’incendio di foreste e torbiere per la creazione di piantagioni industriali. Allo stesso tempo, l’Indonesia ha la terza più grande area di foreste pluviali al mondo, in grado di immagazzinare enormi quantità di carbonio, essenziali per combattere il cambiamento climatico”. Ora le sei comunità indigene, tornate in possesso della propria terra, hanno dato il via a bonifiche e lavori per ripristinare la foresta e preservare i preziosi serbatoi di carbonio.
Delima Silalahi, @Edward-Tigor
A caccia di terra fertile e acqua salubre
Secondo l’ultimo rapporto Focsiv “I padroni della terra”, negli ultimi vent’anni quasi 92 milioni di ettari di terreno sono stati tolti alle comunità locali, ai contadini e ai popoli nativi. Tra i Paesi più colpiti dal fenomeno, il Perù con 16 milioni di ettari, seguito da Brasile, Argentina, Indonesia, Papua Nuova Guinea. In Africa, ai primi posti troviamo Sud Sudan, Mozambico, Liberia e Madagascar.
Sono sempre i più poveri a pagare il prezzo più alto. Assieme all’accaparramento di terre, cresce naturalmente la deforestazione: oltre 11 milioni di ettari di foreste tropicali sono andati perduti nel solo 2021, a favore dell’espansione di grandi coltivazioni monocolturali.
Ma quali sono i principali Paesi investitori e accaparratori? Sono soprattutto quelli “occidentali” più ricchi: dal Canada (quasi 11 milioni di ettari) alla Gran Bretagna, passando per gli Stati Uniti (quasi 9 milioni di ettari), la Svizzera e il Giappone. Seguono le nuove grandi economie come la Cina (5,2 milioni di ettari) e l’India, assieme ai Paesi emergenti come la Malesia (4,2 milioni di ettari) e sede di imprese multinazionali come Singapore (3 milioni di ettari). Brasile e Russia sono contemporaneamente obiettivo di accaparramenti esteri ma anche investitori sul loro territorio.
Dal Rapporto Focsiv 2022 “I padroni della terra”, fonte Land Matrix
L’1% delle fattorie coltiva il 70% dei terreni
Una ricerca di qualche anno fa della International Land Coalition (Ilc), sostenuta da Oxfam e World Inequality Lab, rivela che nel mondo l’1% delle fattorie coltiva il 70% dei terreni.
Dalla fine della seconda guerra mondiale si è assistito a una redistribuzione delle terre coltivate nei vari Paesi grazie alle riforme agrarie. Ma a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso c’è stato un cambio di tendenza. L’urbanizzazione, l’abbandono di terreni, il crollo dei prezzi agricoli hanno portato a una nuova fase di concentrazione delle proprietà dei terreni, prima nel Nord America e successivamente in Europa. D’altra parte grazie alla meccanizzazione dell’agricoltura diventava possibile coltivare enormi superfici.
La diffusione delle monoculture più redditizie porta grandi conseguenze: dal crollo della biodiversità all’impoverimento dei suoli, inquinamento delle falde acquifere ed emissione di gas serra, deforestazione. E ancora prezzi in mano alla distribuzione organizzata e investimenti controllati da grandi istituzioni finanziarie. L’ineguaglianza della distribuzione e dell’accesso alle terre coltivabili è all’origine inoltre delle diseguaglianze sociali ed economiche del mondo.
Le conseguenze della guerra nel land grabbing
Nel rapporto Focsiv si legge che in Europa il Paese maggiormente interessato dal fenomeno del land grabbing è l’Ucraina e purtroppo la guerra in atto è destinata ad aggravare la situazione.
Dei 60 milioni di ettari di superficie totale dell’Ucraina, il 55% è classificato come terreno coltivabile, la percentuale più alta in Europa. Oggi migliaia di appezzamenti sono sotto il controllo di grandi aziende agricole.
La guerra non ferma questi fenomeni, anzi aumenta la competizione tra i potenti a scapito dei più vulnerabili. Un gruppo di scienziati ha pubblicato qualche settimana fa sulla rivista Science un articolo chiedendosi: “la guerra in Ucraina causerà una escalation della corsa alle terre del Pianeta?” La risposta è sì. Gli scienziati hanno infatti statisticamente rilevato due picchi nel land grabbing, entrambi in momenti di crisi epocali. Il primo nel 2008 quando il fallimento della banca Lehman Brothers mandò in tilt l’economia globale, il secondo proprio nel 2022 in seguito all’invasione russa dell’Ucraina.
Stranieri in patria
Analizzando nello specifico il caso di territori come Africa Subsahariana, Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo e Sahel, il rapporto sintetizza: “possiamo dire che i padroni della terra africana sono tanti, soprattutto stranieri, sempre meno sono gli africani ad essere padroni a casa loro. Per quanto attiene al Sahel, è ancora più evidente. Il territorio è nelle mani di organizzazioni criminali e jihadiste, le cui razzie costringono le popolazioni locali a continui spostamenti”.
È lo stesso concetto che, in gennaio 2023, anche i vescovi della Repubblica Centrafricana hanno fatto proprio: a causa del land grabbing e di svendite di grandi appezzamenti coltivabili di diversi ettari e siti strategici, minerari e forestali, le popolazioni locali rischiano di diventare straniere in patria.
Il fenomeno del land grabbing interessa anche l’America Latina se è vero che, a partire dal 2015, gli attacchi contro i difensori dei diritti umani sono aumentati ogni anno. Nel 2020, Front Line Defenders ha registrato 264 uccisioni di difensori dei diritti umani nella sola regione delle Americhe, il 40% legate a questioni riguardanti la terra, i diritti delle popolazioni indigene e l’ambiente. Secondo il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei difensori dei diritti umani, Mary Lawlor “l’America Latina si profila ogni anno come la regione con il maggior numero di uccisioni e dove i difensori dell’ambiente sono i soggetti maggiormente presi di mira”.
Scriveva papa Francesco nell’esortazione apostolica Querida Amazonia: “Se la cura delle persone e la cura degli ecosistemi sono inseparabili, ciò diventa particolarmente significativo lì dove «la foresta non è una risorsa da sfruttare, è un essere, o vari esseri con i quali relazionarsi». La saggezza dei popoli originari dell’Amazzonia «ispira cura e rispetto per il creato, con una chiara consapevolezza dei suoi limiti, proibendone l’abuso. Abusare della natura significa abusare degli antenati, dei fratelli e delle sorelle, della creazione e del Creatore, ipotecando il futuro». Gli indigeni, «quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura», sempre che non si lascino ingannare dai canti di sirena e dalle offerte interessate di gruppi di potere. I danni alla natura li affliggono in modo molto diretto e constatabile, perché – dicono –: «Siamo acqua, aria, terra e vita dell’ambiente creato da Dio. Pertanto, chiediamo che cessino i maltrattamenti e lo sterminio della Madre terra. La terra ha sangue e si sta dissanguando, le multinazionali hanno tagliato le vene alla nostra Madre terra».
A cura di Elena Cogo