«Chi mi dice che qualcuno di voi non sia chiamato a rendere testimonianza allo Spirito Santo anche con il proprio sangue. Se la Provvidenza chiedesse questa sublime testimonianza, ebbene il vostro eccelso privilegio sarà quello di unire il vostro al sangue di Gesù perché sia seme fecondo di fede e di santità?».
Così diceva, la sera del 9 giugno 1957, il patriarca di Venezia Angelo Giuseppe Roncalli, dopo aver consegnato il crocifisso a dieci missionari nel Duomo di Mestre. Fra loro c’era anche padre Angelo Graziani che, nel 1961, in Angola, verrà ucciso barbaramente dai guerriglieri. La comunità di Grumolo Pedemonte, dove padre Angelo è cresciuto, lo ricorda questo fine settimana nel 60° anno della morte. «L’anniversario del suo martirio in Angola è stato a marzo scorso, ma a causa della pandemia non siamo riusciti a organizzare un degno ricordo in suo onore» spiega don Mauro Ferraretto, parroco dell’unità pastorale di Zugliano. «Il consiglio pastorale di Grumolo da tempo desiderava ricordare padre Lazzaro, figura rimasta indelebile nella memoria dei nostri padri – aggiunge Anna Poletto, la vicepresidente – A marzo 2022 si vorrebbe proporre una mostra con foto, documenti, oggetti. I giovani, inoltre, stanno realizzando un video».
La storia
Angelo Graziani nasce il 20 ottobre 1918 a Sarcedo (Vicenza) in una famiglia di contadini poveri. Cresce in semplicità nella vicina Grumolo Pedemonte, dove la famiglia si era trasferita quand’era ancora piccolo. Ogni domenica, il padre Antonio lo accompagna nel santuario della Madonna dell’Olmo a Thiene, percorrendo a piedi oltre tre chilometri. Giacomina, la madre, è originaria di Tresché Conca. Oltre ad Angelo, ha altri figli: Caterina, Francesco, Maria e Rosa. Quest’ultima, futura suor Guglielmina delle Madri della Nigrizia, condivide con Angelo il desiderio di partire per le missioni in Africa. Il frequente incontro con i Cappuccini di Thiene fa nascere nel cuore del giovane Angelo il desiderio di essere come uno di loro. A 12 anni, conclusa la quarta elementare, parte con la sua piccola valigia per entrare nel Seminario dei Cappuccini di Rovigo.
Lo salva una sconosciuta
Nel 1936 avviene un fatto infausto nella vita del ragazzo che ha appena 17 anni. Si ammala di peritonite e viene ricoverato urgentemente all’ospedale di Verona. I medici tentano tutto il possibile, ma la loro diagnosi è drammatica: Angelo è destinato a morire. Nella stanza accanto è ricoverata una signora che, vedendo il via vai di gente, chiede cosa sta succedendo. Le riferiscono che è stato ricoverato un giovane seminarista che sta lottando tra la vita e la morte, un seminarista che intende diventare frate cappuccino. La donna risponde che Angelo non morirà perché chiederà a Dio uno scambio: morire lei perché viva lui. E così avviene: la signora muore e Angelo guarisce. Nello stesso anno, entra in noviziato e, insieme all’abito nuovo, gli danno un nuovo nome: Lazzaro, a ricordo del Lazzaro del Vangelo richiamato in vita da Gesù. Prosegue gli studi a Verona, Padova e Venezia. Il 21 maggio 1944 viene ordinato sacerdote a Venezia nella chiesa della Madonna della Salute.
Morte della sorella
Nel 1945 un duro colpo. La sorella maggiore, suor Guglielmina, infermiera all’ospedale di Lendinara, viene operata a Rovigo al setto nasale e, giorni dopo, è colpita da setticemia. Muore a 31 anni. Tra Angelo e la sorella c’era stato un patto: «Partire per l’Africa e lavorare insieme per la salvezza di quelle anime». Piange la sorella Rosa, ma la sua vocazione missionaria si rafforza ancor di più. Dal 1945 al 1957 presta servizio in vari conventi del Veneto.
Finalmente in Africa
Nel 1957 si presenta l’opportunità di partire per l’Africa. Dopo un breve periodo in Portogallo, dove impara la lingua, a novembre sbarca nel porto di Luanda, capitale dell’Angola. Abbandona il nome di Lazzaro, che nella cultura portoghese significa “uomo da poco”, e riprende il nome di battesimo. I bambini africani lo chiamano mbuta mutu, padre gigante, riferendosi alla sua statura. Vive e opera in tre residenze missionarie: Sanza Pombo, Kimbele e, per ultima, Mbanza Kongo. In ognuna di esse è apprezzato perché uomo buono, sempre pronto a servire.
Fine drammatica
Nel tardo pomeriggio del 14 marzo 1961, padre Angelo arriva a Mpângala, villaggio di mille abitanti – metà cattolici e metà protestanti – per preparare i fedeli alla Pasqua. Nel villaggio sono pochi ad accoglierlo (stranamente!). Da tempo, in quella zona, stavano diffondendosi idee indipendentiste. Alcuni gli consigliano di tornare indietro, ma lui risponde con parole coraggiose: «Preferisco morire in nome di Dio. Non torno indietro. Se questa è la morte che mi ha preparato il Signore Gesù, allora è meglio morire». Alle 4 del mattino seguente giovani rivoltosi bussano alla porta dove il frate riposa, con il pretesto di chiamarlo a battezzare un bambino morente. Poi, sfondano la porta e lo uccidono con tre colpi di fucile. La notte seguente, la madre di Angelo, nel sonno, si sente chiamare più volte: «Mamma, mamma, mamma». Intuisce che dev’essere successo qualcosa di grave all’amato figlio lontano. «Era un bambinone grande – racconta commosso il nipote 73enne Pierantonio Graziani – quando veniva a casa nostra per me e mio fratello era una gran festa. Volevamo molto bene allo zio, perché era un uomo umile. Ricordo che la nonna Giacomina, la mamma di padre Angelo, tre giorni prima di morire lo ha sognato e le ha detto: “Mamma non temere, fra tre giorni ci incontreremo”». I preliminari della causa di martirio sono iniziati alla fine del Giubileo 2000, per volere dell’allora ministro provinciale dei Cappuccini Urbano Bianco. È sostenuta e caparbiamente seguita dal vice postulatore padre Rodolfo Saltarin di Villadose, che si trova a Trento, e da padre Gabriele Bortolami di Padova, che è in Angola e insegna antropologia culturale all’Università statale Agostinho Neto. Se padre Angelo sarà riconosciuto ufficialmente martire, diventerà il primo martire della Chiesa cattolica che è in Angola. Sui tempi necessari per il riconoscimento del suo martirio, il vice postulatore risponde: «Io e Gabriele lavoriamo da più di vent’anni per questa santa causa e ci muoviamo come se tutto dipendesse da noi, pur sapendo che tutto dipende da Dio. Chi li conosce i tempi e i modi di Dio?».
Fonte: Articolo La Difesa del popolo del 17/11/2021