È una storia di corsi e ricorsi quella delle migrazioni. L’America Latina ne è un esempio emblematico. Fino a pochi decenni fa, è stata la “patria di riserva” di milioni e milioni di europei: almeno 10 solo nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento. Poi, invece, alla fine del Novecento, il Continente è diventato terra d’esodo verso il Nord del pianeta. E ora il flusso ha registrato un’imprevedibile giravolta. I latinoamericani continuano a migrare: in trenta milioni vivono fuori dal Paese d’origine. Quasi il 5 per cento dei 650 milioni di abitanti, secondo la Commisión económica para América Latina y el Caribe (Cepal). Solo per fare una comparazione, gli immigrati africani sono 33 milioni su un totale, però, di oltre un miliardo di persone. Prima, gli espatri si concentravano verso gli Stati Uniti e la Spagna, ora i trasferimenti all’interno della regione sono cresciuti in risposta alla recessione e alle crescenti barriere. Al sogno americano, insomma, si è sostituito quello cileno.
A partire dal 2009, la migrazione all’interno del Continente latinoamericano è aumentata del 39 per cento, con un incremento del 3 per cento all’anno. Ma quali sono i fattori che hanno determinato quest’inversione di tendenza? La grande recessione, iniziata nel 2008 negli Stati Uniti e proseguita in Europa, è la causa scatenante. Alla crisi si è aggiunto il miglioramento delle condizioni economiche in molte nazioni, in seguito al boom dei prezzi internazionali delle materie prime. Il Brasile, l’Argentina e soprattutto il Cile sono diventate, così, più allettanti della California o della Spagna. Inoltre, il confine con gli Stati Uniti è diventato sempre più invalicabile. Un’altra inversione di rotta si è registrata in Spagna. Per i latinoamericani la terra iberica, così come il resto dell’Europa, non è più l’“El Dorado”, ma un’alternativa tra le tante. Il flusso migratorio verso il vecchio Continente non si è interrotto, ma è finito il boom, cominciato a metà degli anni Novanta e finito nel 2008.
La migrazione latinoamericana è caratterizzata da tre flussi, con destinazioni differenti. Nello spazio compreso tra il Messico e la Terra del Fuoco c’è una mobilità circolare. In alcuni casi si tratta di una migrazione storica, come quella dei paraguayani in Argentina, in altri di nuovi flussi, come gli haitiani verso il Brasile o il Cile. In entrambi i casi si emigra per motivi economici. Le tensioni e i pregiudizi razziali non mancano, ma a differenza degli Stati Uniti e dell’Europa, in America Latina si sta cercando di gestire il fenomeno e non di bloccarlo. I Paesi latinoamericani sono storicamente più inclusivi. Il Cile è la meta più ambita. Tra il 2007 e il 2015 l’immigrazione è cresciuta del 143 per cento, il tasso più alto del Continente.
L’altro flusso migratorio è diretto verso gli Stati Uniti. Comprende il Messico e il cosiddetto “Triangolo Nord”, ovvero El Salvador, Honduras e Guatemala. In questo caso non si tratta di migranti economici, ma di persone che scappano da situazioni di estrema violenza, come il reclutamento forzato da parte dei narcotrafficanti; ciò spiega perché quasi un terzo dei migranti centroamericani siano minori, vittime di un conflitto invisibile. Entrare negli Stati Uniti è diventato sempre più difficile, per cui tanti migranti latini chiedono asilo in Paesi vicini, come la Costa Rica. Negli ultimi quattro anni in questo Paese si sono quintuplicate le richieste d’asilo da parte dei centroamericani, raggiungendo quota 2.079. Altri 3.000 hanno fatto richiesta in Belize e ventimila – del mezzo milione che ogni anno lo attraversa per oltrepassare la frontiera – potrebbero fermarsi in Messico. Può sembrare paradossale che proprio chi scappa dai narcos si fermi in un Paese dilaniato dalla narcoguerra.
Il terzo esodo è quello dei venezuelani. Un fenomeno nuovo e controverso. Il Venezuela, infatti, fino al 2015 è stato tra le mete preferite dei migranti latinoamericani ed europei. Oggi è terra di emigrazione. In quattro anni si è registrata un’inversione di rotta repentina. Secondo gli studi dell’Università Andrés Bello, già nell’era Chávez, tra il 1999 e il 2013, almeno 700 mila persone hanno lasciato il Paese. Si trattava per lo più di esponenti dell’élite contrari alle politiche economiche adottate dal Presidente. Ma i dati forniti dalla Cepal dimostrano che nel 2010 erano ancora presenti 1,6 milioni di stranieri, il 4,2 per cento della popolazione, mentre gli espatri non raggiungevano la quota 500mila. Il Venezuela, infatti, ha una storia di immigrazione cominciata nell’Ottocento e proseguita fino ai primi anni Duemila.
A partire dal 2012 il crollo del prezzo del petrolio, e la conseguente recessione, hanno invertito la tendenza. La crisi economica è diventata un’emergenza umanitaria e l’emigrazione è diventata un fenomeno di massa. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), tra il 2015 e il 2017 1,6 milioni di venezuelani si sono trasferiti all’estero legalmente. Ciò significa che le dimensioni dell’esodo sono maggiori. Ogni giorno 45 mila persone attraversano la frontiera con la Colombia, di queste, duemila non tornano più a casa. L’esodo venezuelano si svolge in gran parte all’interno della regione, ma una quota significativa – 208mila persone censite nel 2017 – si è diretta in Spagna, il terzo Paese d’accoglienza dopo Colombia e Stati Uniti. Al momento, il Venezuela detiene il record delle richieste d’asilo nel Continente. Nel 2017 l’Alto commissariato Onu per i rifugiati ne ha registrato 111.600, il triplo rispetto all’anno precedente. Per far fronte all’emergenza, otto Conferenze episcopali latinoamericane, a maggio, hanno deciso di unire le forze – mettendo a disposizione 400 mila euro per i prossimi due anni – per offrire assistenza umanitaria e sostegno all’esodo venezuelano.
Da settimane si registra un nuovo flusso migratorio. Ogni giorno centinaia di nicaraguensi lasciano le loro case, per necessità più che per scelta, a causa delle repressione in atto dopo le proteste cominciate da aprile. La maggior parte varca la frontiera con la Costa Rica, dove sono già 25mila e il numero rischia di aumentare a dismisura, nel caso prosegua la violenza. Le autorità costaricensi stanno cercando di gestire l’emergenza, con qualche fatica, anche se da qualche decennio ormai il Paese più prospero e pacifico dell’America Centrale è abituato a fare i conti con la migrazione.
Maria Lucia D’Andria
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questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Andare alle Genti