Ogni anno durante la Quaresima siamo invitati ad una celebrazione che si qualifica come preludio tanto del Venerdì Santo, quanto della Pasqua.
È la Giornata dei Missionari Martiri, giorno di preghiera e di digiuno, come la Celebratio Passionis Domini, in cui viviamo e metabolizziamo la morte, il sacrificio, la crudeltà e la sofferenza che attanagliano questo mondo e la sua gente. Ma anche giorno di festa, di resurrezione, di assunzione della consapevolezza che l’epilogo della vita umana non è che una fase transitoria.
Missio Giovani, erede del Movimento Giovanile Missionario (MGM), che propose, per la prima volta nel 1991, la celebrazione della Giornata alle Chiese in Italia, si fa promotrice di una imperdibile occasione di ascolto verso le donne e gli uomini che spendono la propria vita per la causa del Vangelo; orecchie e cuori aperti alla voce soffocata dei popoli oppressi che i missionari incontrano ogni giorno sulle strade del mondo.
La scelta della data non è affatto casuale; il 24 marzo del 1980, infatti, mons. Oscar Romero veniva assassinato a San Salvador da militari suoi connazionali, fedeli al regime. La ragione del martirio del Santo de America era proprio la vicinanza agli ultimi, ai salvadoregni schiacciati da un sistema di protezione delle élites a guida del Paese, che operava soprusi sul popolo contadino e operaio. Durante la celebrazione della messa, dopo aver denunciato l’impiego di bambini nella mappatura dei campi minati, mentre elevava l’ostia della consacrazione, un colpo di fucile lo raggiunse alla vena giugulare. Il sicario, mandato dai leader politici al potere, aveva colpito la voce di chi, in quegli anni bui di El Salvador, non aveva voce.
La risposta del popolo fu immediata, chiara e coesa su due fronti: innalzare agli onori dell’altare El Santo, seppur solo figuratamente (Papa Francesco lo proclamerà ufficialmente santo nel 2018), e nutrire la speranza di un Paese migliore con la sua memoria.
L’invito, pronunciato dall’arcivescovo, il giorno precedente al martirio, nei confronti dell’esercito e della polizia, riecheggiava tra la folla e giunge fino a noi, oggi, come monito di liberazione: “Vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!”.
La voce dei martiri, che è Voce del Verbo, del Dio fattosi uomo per manifestare la sua vicinanza alla fragilità della vita, diventa da sempre seme, germoglio per le comunità cristiane. Non è un caso che i primi santi della Chiesa siano stati proprio dei martiri, annunciatori del Vangelo liberatore di Cristo, pilastri della fede che proclamiamo ancora oggi. Come il Nazareno innalzato sulla croce, il martire, nella sua debolezza, rimane fedele fino all’ultimo istante alla promessa ricevuta e ricambiata a Dio: pace, giustizia e speranza per tutti i popoli della Terra.
Per questa 30ª edizione della Giornata abbiamo voluto sottolineare proprio l’aspetto della voce.
Sono diverse le ragioni che ci hanno condotto a questa riflessione: oltre all’evidente e già sottolineata attenzione che vogliamo porre sui popoli che subiscono martirio, dei quali il missionario è chiamato a farsi portavoce e amplificatore, c’è anche una dimensione legata al silenzio nella morte che vorremmo scardinare. Infatti, se la morte, così come quotidianamente la viviamo, è spesso accompagnata dal silenzio e dal dolore ci sono situazioni in cui non è così. Pensiamo ad esempio ai conflitti armati, alle persecuzioni, alla criminalità, al terrorismo, fenomeni che si muovono, che strisciano nel silenzio, per sfociare poi nelle bombe e nelle grida di chi le subisce. Questo rumore assordante non fa altro che sovrastare quella voce, già fioca e intimorita di chi è oppresso.
Ma c’è un’altra morte che fa rumore, è quella di Cristo inchiodato alla croce, emblema del martirio che scuote la terra, che disordina gli equilibri del potere, che distrugge il tempio del male per edificare quello dell’uguaglianza e della libertà dei figli di Dio.
Anche quando il sepolcro è murato, quella voce, che è eco della voce creatrice del Padre, non tace. Continua a plasmare il mondo e, in un’esplosione di luce, lo risorge, gli ridona vita nuova. Il missionario martire non giace nella tomba ma è più vivo che mai nelle donne e negli uomini che hanno ascoltato dalla sua voce la Buona Notizia di Gesù.
Auguro a ciascuno di noi di vivere la Quaresima e la Pasqua come laboratorio delle nostre vite, di sperimentare il totale abbandono di sé per ritrovarsi risorti in Cristo. Che i missionari martiri siano il faro della nostra fede che punta a Dio, Padre di un mondo nuovo che non conosce la miseria, la fame, l’oppressione, la discriminazione, la guerra e le ingiustizie, un mondo in cui l’esistenza è unicamente amata in Lui.
Giovanni Rocca
Segretario nazionale Missio Giovani