Gli anniversari, indipendentemente dal fatto che siano a cifra tonda o meno, non costituisco solitamente il momento ideale per discutere di un determinato evento o di un personaggio che ha segnato la Storia. Il rischio, per così dire, sempre in agguato è quello di una memoria all’insegna dell’altisonanza e dunque della retorica, senza farsi necessariamente scrupoli, nel metodo e nel merito, rispetto alle istanze dell’indagine storiografica. Eppure, nel caso di monsignor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, arcivescovo di San Salvador, di cui il 24 marzo ricorre la commemorazione della morte violenta, si tratta di un atto dovuto. Elevato all’onore degli altari, come beato, da papa Francesco, il suo dies natalisha una duplice valenza, laica e religiosa. Infatti, nel giorno del suo martirio cade la “Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime”, proclamata dalle Nazioni Unite.
Contemporaneamente, già da molti anni, il 24 marzo siamo chiamati a fare memoria dei “missionari martiri”, cioè di coloro che hanno dato la vita per la causa del Regno di Dio. Si tratta di uomini e di donne che, nella fede, hanno manifestato la parresìa, il coraggio di osare, nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo, perché “Chiamati alla vita”. Un’espressione, questa, forte e diretta, che quest’anno è stata scelta dalla Fondazione Missio – che rappresenta in Italia le Pontificie Opere Missionarie (PP.OO.MM.) – come slogan per la 26esima Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri. Una gratuità, quella dei missionari martiri, che rende davvero intelligibile il Verbo, cioè la Parola forte di Dio.
Da rilevare che nel 2017, secondo i dati forniti dall’agenzia missionaria Fides, sono stati uccisi nel mondo 23 missionari: 13 sacerdoti, un religioso, una religiosa e otto laici. Secondo la ripartizione continentale, per l’ottavo anno consecutivo, il numero più elevato si registra in America, dove hanno perso la vita 11 operatori pastorali (otto sacerdoti, un religioso, due laici), cui segue l’Africa, dove sono caduti 10 operatori pastorali (quattro sacerdoti, una religiosa, cinque laici), mentre in Asia sono stati uccisi due operatori pastorali (un sacerdote, un laico).
Testimonianze di condivisione
Dal 2000 al 2016, secondo i dati raccolti da Fides, sono stati uccisi nel mondo 424 operatori pastorali, di cui cinque vescovi. Il computo di Fides, comunque, ha un significato estensivo. Ormai da tempo, esso non riguarda solo i missionari ad gentes in senso stretto, ma include nell’elenco tutti gli operatori pastorali morti in modo violento, di cui si è avuta notizia, anche non espressamente “in odio alla fede”. Molti di loro sono stati uccisi durante tentativi di rapina o di furto, compiuti anche con ferocia, in contesti di grande esclusione sociale e culturale, di degrado morale e ambientale, dove violenze, vessazioni e sopraffazioni d’ogni genere sono assurte a regola di comportamento, in flagrante violazione del sacrosanto diritto alla vita e, in termini generali, dei diritti umani.
Occorre anche riflettere sul fatto che raramente gli assassini di preti o suore vengono individuati o condannati. Esemplificativa, sempre secondo Fides, la condanna del mandante dell’assassinio del missionario gesuita spagnolo Vicente Canas, ucciso in Brasile nel 1987. Nel primo processo, celebrato nel 2006, gli imputati vennero assolti per mancanza di prove; il nuovo processo del 29 e 30 novembre, ha portato alla condanna del mandante, unico sopravvissuto degli imputati.
Una cosa è certa: in tutte le latitudini sacerdoti, religiosi/e e laici condividono con la gente comune la stessa vita quotidiana, portando il valore aggiunto di una testimonianza evangelica che trova il suo fondamento nella fede. Essa, d’altronde, non è mai un sentimento dissociato dalla vita, anzi è la radice di una umanità autentica di cui i missionari martiri sono testimoni. Emblematico è l’esempio dell’apostolo dei Gentili, Paolo di Tarso, quando sentì approssimarsi il declino del suo vigore: «Bonum certamen certavi, cursum consumavi, fidem servavi» (Ho gareggiato in una bella gara, ho terminato la corsa, ho conservato la fede, ndr). Ecco perché la loro esperienza, quella dei tanti apostoli del Vangelo, disseminati nei cinque continenti, all’insegna della gratuità e della radicalità, diventa, per ogni credente, motivo d’ispirazione. Infatti, se è vero che la Storia è scandita da molteplici patimenti, per chi crede e non crede; dall’altra, nella fede, essa porta il segno della redenzione. Il martirio, pertanto, ha un significato che va ben oltre l’eroica testimonianza di colui che, di fronte alla virulenza del mysterium iniquitatis, all’opposizione ostinata del mondo, arriva fino all’effusione del sangue. In questa prospettiva, la celebrazione dei martiri riguarda dunque anche i “vivi”, cioè quegli uomini e quelle donne che hanno fatto la scelta di rimanere al fianco dei poveri, in condizioni non solo disagevoli, ma anche di grave pericolo.
Dialogo con tutti
La loro fede non è mai un sentimento dissociato dalla vita, anzi è la radice di un’umanità autentica disposta a dialogare con tutti, fossero essi anche i propri carnefici. E se la domanda fondamentale, che interpella ognuno di noi, è quella riguardante il senso e il significato delle persecuzioni che attanagliano, ancora oggi, molte comunità, i nostri missionari e missionarie, con il loro esempio, ci aiutano a cogliere un mistero che ci sovrasta: quello del trionfo pasquale della vita sulla morte. D’altronde, essere credenti significa, innanzitutto, cogliere la certezza di una presenza, quella di Cristo, vivendo coerentemente e dignitosamente secondo il dettato evangelico.
Proprio come ebbe a scrivere nel suo testamento padre Christian de Chergé, il priore dei monaci trappisti uccisi in Algeria, a Tibhirine, il 21 maggio 1996: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese». Il 26 gennaio scorso papa Francesco ha autorizzato il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, a promulgare il decreto riguardante il loro martirio, insieme a quello di altri 12 tra religiosi e religiose uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996, “in odio alla fede”. È evidente, comunque, che riuscire a monitorare a livello planetario il numero dei missionari caduti nel pieno adempimento della loro vocazione, non è facile. Infatti agli elenchi stilati annualmente dall’agenzia Fides, deve sempre essere aggiunta la lunga lista dei tanti, di cui forse non si avrà mai notizia o di cui non si conoscerà neppure il nome, che in ogni angolo del pianeta soffrono e pagano con la vita la loro fede in Gesù Cristo, morto e risorto. Quest’anno, peraltro, vi è una felice coincidenza. La Giornata dei missionari martiri cade di sabato, nella vigilia della Domenica delle Palme, introducendo al mistero della Passione di Nostro Signore e alla Pasqua.
Articolo di GIULIO ALBANESE pubblicato sul numero di marzo di Popoli e Missione